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Questa è la storia di Ulisse e dei suoi sparatori che infine si spararono fra loro, tutto sconvolgendo.
Il racconto di ciò che è stato prima e che ha innescato quei colpi in canna, di ciò che è stato dopo e perdura inconciliato, forse inconciliabile.
Di questo la mia famiglia è stata testimone: che ogni sparo da spari precedenti è generato e a sua volta genera spari, all'instaurarsi di una catena senza fine.
Questo abbiamo imparato: l'eco di uno sparo non si quieta mai.
29 febbraio 1944. Due uomini procedono in bicicletta su uno stradello in mezzo alle campagne di Reggio Emilia. Sono le 17.45 quando all'improvviso uno di loro viene raggiunto da quattro colpi di arma da fuoco e cade a terra, morto. I tre assassini fuggono. Il morto si chiama Ulisse; è uno squadrista, ha partecipato alla Marcia su Roma, è segretario politico del Fascio di Campegine. Ad ammazzarlo sono stati i GAP, Gruppi di Azione Patriottica.
Nelle stesse terre, pochi mesi prima, erano morti i sette fratelli Cervi, fucilati dai repubblichini. 
Con questa scena inizia questo romanzo famigliare, e a raccontarcelo, settant'anni dopo, è il nipote di Ulisse, nato tredici anni dopo l'omicidio: Massimo Zamboni, scrittore, musicista e fondatore, insieme a Giovanni Lindo Ferretti, del gruppo punk CCCP, che ha cambiato la storia della musica in Italia. 
Per Massimo è importante fare i conti con quella figura ingombrante, che come in un gioco di sovrapposizioni ha a che fare con la sua identità e con quella della famiglia. Ma attraverso questo tentativo, molto personale, l'autore ci fornisce uno sguardo prezioso sulla nostra storia recente e sulla costruzione dell'identità collettiva del nostro paese.

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