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Sono morto. Ammazzato. Ucciso di botte, che morte cretina. All'inizio ho pianto, devo essermi anche pisciato addosso. Giuro, non volevo, poi ho pensato: non dovrei essere qui, a guardarmi mentre mi ammazzano. Non chiedetemi come è successo, era come stare al cinema, era la scena della mia morte, e io non ne sapevo nulla. […] Questa è la mia storia, di come ho scoperto chi sono e come tutto è finito. Perché c'è una fine a tutto.
Zolferini, detto Zolfo, vive nella periferia di una delle tante città emiliane, in un piccolo e disadorno appartamento nelle case popolari solo e senza un soldo. Al macello in un cui lavorava non vogliono nemmeno più sentir parlare di lui: licenziato. Zolfo quindi non ha più nessuno, è un relitto alla deriva; si sposta con un'Ape Piaggio 50 da un bar all'altro senza una meta, per evitare anche il padrone di casa al quale deve sei mesi di affitto arretrato. Una sera l'ultimo amico rimasto gli lascia il biglietto da visita di un importante avvocato che pare abbia bisogno del suo aiuto: c'è stato un pestaggio, un gruppo di ragazzi ha ucciso a sprangate un ragazzo di colore e tra i ragazzi c'è anche il figlio dell'avvocato. La richiesta che viene fatta a Zolfo è semplice: assumersi la responsabilità dell'omicidio in cambio di una cospicua somma di denaro. L'avvocato si assumerà poi la difesa di Zolfo e con le attenuanti sarà fuori in un paio d'anni.« Cosa ne dice Zolferini, accetta?»

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