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Avatar Shirley
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Mia madre ci porta in fondo all'autobus.
È
il 1963
in South Carolina.
Troppo rischioso sedersi davanti
      sperando che l'autista
non la faccia spostare. Non con noi. Non ora.
Io in braccio, non avrò più di tre mesi. Mia sorella
e mio fratello stretti sul sedile accanto al suo. Lui ha la camicia
banca, la cravatta, la testa rasata a zero.
     Le trecce di mia sorella sono legate
con il nastro bianco.

[...] Se vedete arrivare un bianco scendete dal marciapiede
non guardatelo negli occhi. Sissignore. Nossignore.
      Mi scusi.
Con gli occhi dritti sulla strada, mia madre
è a chilometri da qui.

Poi distende le labbra, posa la mano con dolcezza
sulla testa calda di mio fratello. Ha tre anni,
gli occhi sgranati sul mondo, le orecchie troppo grandi
già in ascolto.
Non abbiamo niente che non va,
sussurra mia madre.

Niente che non va.
Jacqueline racconta, in questa autobiografia in versi, la sua infanzia tra gli anni Sessanta e Settanta, un'infanzia divisa tra il South-Carolina, terra di radici famigliari, ma profondamente razzista, e New York, dove il colore della pelle sembra non aver importanza, ma dove ognuno pensa per sé.
Le pagine scorrono: un viavai di momenti famigliari, quotidiani, intimi si alternano al racconto del mondo di fuori, corrotto, marcio, respingente. Fino a quando Jacqueline trova la strada per mettersi in gioco:

È più facile inventare le storie
che metterle per iscritto. Se le racconto a voce,
le parole vengono fuori da sole. La storia
si sveglia e cammina per la stanza. Si siede su una sedia,
accavalla una gamba sull'altra, dice,
Mi presento. Poi comincia a parlare.
Ma se mi piego sul quaderno,
solo il mio nome
mi viene facile.

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