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 «Non possiedo niente, eppure vi darò qualcosa che non ho ancora dato a nessuno. Una storia, sì, vera. Sono le migliori, no? Mi gira così. Di che ti spaventi? È solo una storia, non dovrai spremerti troppo le meningi, non ti accorgerai neanche di averle. Sono solo parole, chiacchiere, ciance. Una volta uscito di qui, te ne dimenticherai» 
 Squilla il telefono a casa del giudice Avishai Lazar, la casa è deserta ed è solo, risponde. Dall'altra parte del telefono c'è Dova'le che con entusiasmo cerca di elencare dettagli dell'infanzia trascorsa insieme e della loro amicizia, le loro passeggiate, i corsi seguiti due volte a settimana da un maestro del paese, ma il giudice non ricorda. È proprio dal tono di voce pieno, carismatico ed empatico che piano i tratti di Dova'le bambino si delineano nella memoria. 
Occhi scuri, occhiali, lentiggini, un bambino sempre solo, beffeggiato e maltrattato dai coetanei, che aveva uno strano modo di guardare la realtà, a testa in giù camminando sulle mani.  Sono passati tantissimi anni, non capisce cosa mai possa averlo portato a quella chiamata.  Dova'le lo invita ad un suo spettacolo di Cabaret, vuole che il vecchio compagno assista alla sua esibizione e che alla fine riferisca “quello che ha visto”. Il palco è deserto, una poltrona logora e una lavagna come scenografia, e con un grido Dova'le dà il benvenuto alle persone in sala, lo spettacolo ha inizio. C'è qualcosa di strano nella serata, Avishai accetta l'invito ma continua a non capire bene perché è lì. Le barzellette si alternano a osservazioni ciniche, sarcastiche sul pubblico e le persone ridono.
L'amarezza, la nostalgia e la tristezza, accompagnano lo spettacolo, l'atmosfera cambia. È  la sua vita, l'infanzia, un lutto vissuto quand'era bambino a diventare soggetto della scena. Qual è lo scopo di Dova'le? 

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